Frosinone. I soldi sporchi della camorra investiti nell’abbigliamento

L’abbigliamento e generi di prima necessità. Questi i settori strategici sui quali la Camorra ha investito a Frosinone per ripulire il denaro sporco ricavato dalle estorsioni e da altre attività illecite. Ammonta a 120 milioni di euro e 24 arresti l’operazione con la quale la Dia di Napoli ha incastrato il clan Fabbrocino. Camorristi che dall'area vesuviana si erano radicati al nord e centro Italia, attraverso catene di negozi di abbigliamento e supermercati.
I sequestri sono stati eseguiti in sette regioni. Nel mirino 36 fiancheggiatori o prestanome del clan indispensabili per avviare le 80 aziende tra Frosinone; Roma, Milano, Brescia, Mantova, e aziende agricole in provincia di Perugia; supermercati in Abruzzo, fabbriche tessili e stirerie nell'area vesuviana. Sono quattro le persone ricercate mentre in manette sono finiti alcuni "colletti bianchi" del clan: l'avvocato Salvatore Ambrosino, 45 anni. Pedine chiave per l’attività di consulenza del clan al fine di acquisire i beni nelle aste pubbliche. Attività nella quale i camorristi si sono specializzati. Strategico anche il ruolo dell'imprenditore immobiliare Pasquale Ciccarelli, 60 anni, marito di un notaio e candidato a sindaco di Ottaviano (Napoli) nel 2009 con il sostegno del clan.

Le indagini condotte dalla Dia di Napoli sono cominciate nel 2008 e hanno ricostruito una rete di società ed esercizi commerciali che hanno più volte cambiato pelle e assunto nuove denominazioni. A reggere la cosca dei Fabbrocino - dopo l'arresto, nel 2006, del boss Mario Fabbrocino, che sta scontando due ergastoli - era, secondo gli inquirenti, il pluripregiudicato Biagio Bifulco, 55 anni. Assegnato al regime di libertà vigilata a Brescia, Bifulco ne aveva approfittato per allargare la rete dei traffici dell'organizzazione camorristica in Lombardia.
Riciclando i capitali delle estorsioni, Bifulco aveva creato un'impresa nel settore dell'abbigliamento, della quale risultava dipendente. Sul proprio territorio i Fabbrocino imponevano tangenti di circa il 30% (e fino al 50%) per l'attività di recupero credito, un'altra specializzazione della cosca, riuscendo a infiltrarsi anche in appalti pubblici, come il rifacimento di alcuni tratti della Statale 268. Qui le tangenti versate dalle imprese erano state tra il 3% e il 5%, ma il clan era riuscito a fare assumere propri elementi. Radicato alle pendici del Vesuvio, il clan Fabbrocino ha legami con i Licciardi di Secondigliano, con la frazione Amato-Pagano degli "scissionisti", i Mazzarella di San Giovanni a Teduccio, e i fratelli Russo di Nola, la cui latitanza - secondo gli investigatori - fu protetta a lungo e finanziata dagli uomini dei Fabbrocino. Profondamente radicato nell'area vesuviana - secondo quanto emerso dalle indagini - il clan Fabbrocino aveva affinato la tattica. Non imponeva tangenti a negozi e piccole imprese, si concentrava viceversa sui grossi appalti, sulle aste fallimentari e sul recupero crediti. 

Scrivi commento

Commenti: 0